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Tari seconda casa in affitto

La Tari deve essere pagata da chiunque possiede o detiene a qualsiasi titolo (usufrutto, uso, abitazione ecc.) locali o aree scoperte, suscettibili di produrre rifiuti urbani.

In caso di pluralità di possessori o di detentori, essi sono tenuti in solido all’adempimento dell’unica obbligazione tributaria.

In caso di locazione dell’immobile, il possessore diviene, non più il proprietario, ma l’inquilino il quale è pertanto tenuto in via esclusiva al pagamento della tassa sui rifiuti.

Tuttavia, se l’inqulino occupa l’immobile per un periodo inferiore a sei mesi nello stesso anno solare (detenzione temporanea) la Tari resta a carico del proprietario (o possessore ad altro titolo – per esempio usufruttuario che la locato l’immobile).

Se nello stesso immobile vivono sia il proprietario che l’inquilino, entrambi sono obbligati in solido al pagamento della Tari. Ciò vuol dire che il Comune potrà chiedere il versamento per l’intero ad entrambi i possessori, fatto salvo il diritto di chi paga di rivalersi sull’altro per riavere indietro la propria quota.

Nel caso di locali in multiproprietà e di centri commerciali integrati, il soggetto che gestisce i servizi comuni è responsabile del versamento della Tari dovuta per i locali e le aree scoperte di uso comune e per i locali e le aree scoperte in uso esclusivo ai singoli possessori o detentori.  Restando fermi, nei confronti di questi ultimi, gli altri obblighi o diritti derivanti dal rapporto tributario riguardante i locali e le aree in uso esclusivo.

Se il proprietario non utilizza l’immobile perché interamente locato all’inquilino, non potrà in alcun modo essere responsabile del pagamento della tassa. Non vi è infatti un’obbligazione solidale; l’unico soggetto tenuto al pagamento è l’inquilino, anche se di fatto non usa l’immobile (che formalmente risulta da lui occupato). Il Comune non può quindi pretendere il pagamento della Tari dal proprietario.

L’eventuale avviso di accertamento Tari notificato al proprietario per il periodo in cui l’immobile era affittato  è illegittimo e deve essere contestato offrendo la prova della detenzione dell’immobile da parte dell’inquilino.

Torna il bonus bebè col 20% in più dal secondo figlio.

Il ministro per la Famiglia Lorenzo Fontana ha illustrato gli emendamenti alla manovra della Lega e del governo per la famiglia. Tra questi, c’è la bonus bebè con una maggiorazione dell’assegno del “20% per ogni figlio successivo al primo”. Una proposta per ora, che sarà valutata dalla commissione Bilancio della Camera.

Il ministro può contare su una dote finanziaria per gli incentivi natalità di 444 milioni di euro (al posto dei circa 400 previsti per il 2018 dal precedente governo) e può contare anche su una nuova formulazione: per ogni figlio successivo al primo è previsto un incremento del 20% su quanto erogato.

Le nuove misure prevedono due fasce di reddito: fino a 7mila e da 7 a 25mila euro per gli assegni alle famiglie.

Tra gli emendamenti governativi e quelli presentati d’intesa con la Lega sono previsti inoltre “40 milioni di euro per il congedo di 4 giorni per i padri, l’istituzione del “Fondo di sostegno per le crisi familiari” (10 milioni di euro all’anno), il raddoppio – da 400 a 800 euro – delle detrazioni fiscali per i figli con disabilità“.

Nella proposta, inoltre, per le mamme sarà possibile scegliere se accedere a un periodo di tre mesi di matenità retribuita al 60% oppure di sei mesi retribuita al 30%.

Infine, il fondo politiche per la famiglia – potenziato a 300 milioni di euro per il 2019-2021 (e di 100 milioni per ogni anno successivo) – è stato indirizzato con un forte orientamento alla promozione del welfare aziendale.

Nel pacchetto famiglia, continua la nota, Fontana rilancia inoltre l’iniziativa della “Carta famiglia, che consente l’accesso a sconti sull’acquisto di beni o servizi oppure a riduzioni tariffarie. Da sottolineare che – già in ddl bilancio – sono stati previsti 960 milioni di euro per tre anni per gli asili nido“.

Inoltre, seppure in capo al ministero del Lavoro, il ministro per la Famiglia ha inteso presentare un emendamento per il rifinanziamento del cosiddetto voucher baby sitting, per 50milioni di euro. Lo stanziamento è rivolto sia alle lavoratrici autonome che alle lavoratrici dipendenti.

Buoni fruttiferi: Poste Italiane condannata a pagare gli interessi previsti sul retro.

Importante provvedimento del Collegio di Torino dell’Arbitro Bancario che, con decisione dell’11 ottobre 2018, ha sancito il diritto degli intestatari di buoni postali fruttiferi, sottoscritti negli anni successivi al luglio del 1986, di riscuotere gli importi riportati nella tabella posta nel retro dei buoni e non gli inferiori rendimenti dichiarati da Poste.

Il caso
La risparmiatrice, titolare di due buoni emessi nel 1987, si era vista respingere le proprie richieste di riconoscimento degli interessi riportati nel retro dei buoni a causa di una modifica dei rendimenti avvenuta nel 1986, prima che lei li sottoscrivesse, e di un timbro che Poste aveva apposto sopra la tabella con i rendimenti dei buoni.

La decisione del Collegio di Torino ha affermato la prevalenza di quanto riportato sul buono fruttifero, rispetto alle modifiche apportate con decreto ministeriale in epoca antecedente alla sottoscrizione del buono, e senza che a nulla valesse, a tal fine, il timbro apposto da Poste in quanto questo prevede gli interessi dovuti esclusivamente per i primi venti anni di validità del titolo, non dicendo invece nulla sugli interessi da corrispondersi in favore della risparmiatrice per gli ultimi dieci anni.

La condanna
Con questo provvedimento Poste Italiane è stata condannata a rimborsare alla risparmiatrice, assistita dall’avvocato Fabio Scarmozzino del Movimento Consumatori, gli interessi previsti sul proprio buono per gli ultimi dieci anni di validità del titolo e non quelli inizialmente riconosciuti da Poste Italiane. In tal modo la risparmiatrice è riuscita a farsi riconoscere oltre seimila euro rispetto a quanto voleva corrispondere Poste.

La decisione
Si tratta di un importante decisione per le migliaia di titolari di buoni postali che in questi anni, decorsi i trent’anni dalla sottoscrizione, si recano presso gli uffici postali e che ignari dei propri diritti, si vedono riconoscere importi inferiori rispetto ai rendimenti previsti nel buono.

Mutui: attenzione prima di firmare.

Gli italiani hanno sempre considerato la propria casa come un bene intoccabile, come una forma di investimento sicuro, scegliendo di spendere i propri risparmi nel cosiddetto mattone. Certo, negli ultimi anni, a causa dei problemi economici delle famiglie italiane,il mercato immobiliare ha subito una forte crisi con il valore immobiliare diminuito e le difficoltà nell’ottenere il mutuo dalle banche. A tutto questo si è aggiunto in queste ore, la scelta del governo che nel recepire la direttiva comunitaria 2014/17, ha stabilito che la casa passerà alla banca dopo 18 mesi di morosità. Una scelta che di certo non potrà far piacere alle famiglie italiane, già in difficoltà a causa della crisi economica.

Prima di tutto, non vi sarà nessuna retroattività, con la normativa sull’inadempimento che non sarà applicabile ai contratti già in essere. Inoltre, la clausola sull’inadempimento sarà facoltativa, quindi la banca non potrà obbligare il cliente a firmarla, questo vuol dire che dopo le 18 rate non pagate, la casa potrà essere messa in vendita solo dopo uno specifico atto da parte del consumatore.
Viene vietato il “patto commissorio” disciplinato all’articolo 2744 del codice civile e con cui si prevede che in mancanza del pagamento di un debito nel termine fissato, proprietà della cosa posta a garanzia dell’adempimento passerà al debitore.
Mentre si pensa invece di disciplinare il “patto marciano” con cui la banca può trattenere dopo la vendita dell’immobile solo quanto ancora dovuto dal cliente.
Potrebbe essere inoltre introdotto il principio secondo cui, in caso di inadempimento, il trasferimento dell’immobile alla banca comporterà l’estinzione del debito, anche se il valore immobiliare dell’appartamento sarà inferiore a quello del debito residuo

Nel decreto legislativo si pensa di inserire un esperto di settore, che sarà a tutela dal consumatore, e che sulla procedura dovrà vigilare la Banca d’Italia. Inoltre, la valutazione dell’immobile dovrà essere effettuata da un perito indipendente nominato dal tribunale. Con l’applicazione delle clausole sopra elencate, si pensa di evitare la procedura giudiziaria, così da prevedere una diminuzione di costi da parte del cliente, ma sarà davvero così?
Il rapporto tra banca e cliente non sempre è caratterizzato dalla massima trasparenza, a maggior ragione con l’inserimento di queste nuove clausule, così prima di sottoscrivere un contratto, potrà rivolgersi alla nostra Associazione per evitare di incappare in qualche spiacevole sorpresa.

Nulle le fideiussioni senza neanche valutazione del giudice.

Potrebbe davvero essere una Caporetto per tutte le banche, la nuova sentenza della Cassazione in materia di fideiussioni (Cass. sent. n. 13846/19 del 22.05.2019). In pratica se hai prestato una garanzia per un’apertura di credito o un finanziamento e il tuo contratto è simile allo schema prefissato dall’Abi qualche anno fa, sei libero dal rischio di un pignoramento nell’ipotesi in cui il debito non venga restituito.

Le banche hanno a lungo utilizzato tutte lo stesso schema di contratto di fideiussione che era stato loro predisposto dall’Abi. Ma questo comportamento è stato ritenuto illegittimo nel 2005 da Bankitalia: esso cioè finiva per limitare qualsiasi concorrenza tra gli istituti di credito imponendo ai clienti le medesime condizioni. In pratica, a qualsiasi sportello ti rivolgevi avevi sempre le stesse condizioni. Una scelta era così impossibile.

Neanche a dirlo: le banche se ne sono infischiate e, nonostante il provvedimento dell’Autorità Garante (appunto Bankitalia) hanno continuato a fare di testa propria.

Ora è arrivata la Cassazione a sottolineare: le fideiussioni redatte secondo questo schema sono nulle in automatico. Non c’è neanche bisogno di una valutazione del giudice sull’illegittimità delle clausole della fideiussione visto che questa valutazione è già stata fatta, a monte, dalla Banca d’Italia.

Il tribunale deve quindi limitarsi a verificare se il contratto è sostanzialmente simile a quello dell’Abi e, in tal caso, annullarlo.

Nuova stangata dei tassi sui mutui.

La manovra economica non cambia. Il governo M5s-Lega tira dritto, decidendo di mantenere invariate le proprie previsioni di crescita e indebitamento netto, nonostante le critiche della Commissione europea. La nuova “sfida” all’Europa ha già avuto un primo effetto stamattina, spingendo al rialzo lo spread: il differenziale Btp/Bund torna a salire decisamente oltre i 300 punti. Il rendimento del nostro titolo decennale schizza al 3,51%. Cosa significa e, soprattutto, quali effetti “pratici” ha quest’impennata dello spread? Secondo un report del Sole 24 Ore, di fatto si registra un incremento dei tassi sui mutui dello 0,3%. Quasi tutti gli istituti bancari, infatti, stanno iniziando a ritoccare i tassi a causa delle turbolenze sui mercati.

I tassi tendenzialmente aumentano per i nuovi prestiti, lasciando quindi un cordone di sicurezza su quelli già stipulati. Il doppio salto mortale dello spread – che dai 120 punti base di maggio ha superato 300 – ha creato parecchie falle nel patrimonio delle banche. Questo pesa sui tassi che le banche pagano per l’emissione di nuovi bond. A tutto questo quadro va anche aggiunta la “mannaia” che ci aspetta a inizio 2019, con lo spegnimento del Quantitative Easing della Banca centrale europea. Il Quantitative Easing, abbreviato con Qe, è uno strumento non convenzionale di politica monetaria espansiva usato dalle banche centrali per stimolare la crescita economica, con lo scopo di orientare l’offerta di credito e i mercati finanziari. La Bce ha avviato il suo programma nel marzo 2015 e ha annunciato che lo ridurrà a 15 miliardi a partire dal mese di ottobre per poi azzerarlo dal gennaio 2019. E c’è un altro aspetto da tenere in considerazione: dalla scorsa estate i tassi Irs, uno dei parametri che vanno a comporre il tasso fisso, sono saliti di 10-15 punti: questo ha determinato una parte dell’aumento dei tassi.

Questa “mini” stangata sui mutui è un trend intrapreso dai principali istituti bancari che, stando ai movimenti registrati negli ultimi mesi, hanno aumentato gradualmente i tassi sui nuovi prestiti. “Dall’estate scorsa ad oggi lo spread è aumentato di 20-30 punti base per i mutui a tasso fisso e di 15-20 punti base per i mutui a tasso variabile”, spiega all’Adnkronos Stefano Rossini, l’ad di MutuiSupermarket.it, collocando gli incrementi soprattutto nei mesi di ottobre e novembre. “Dopo un periodo prolungato di immobilismo in cui lo spread sui fissi ha toccato il minimo storico intorno a quota ‘zero’ – sottolinea l’esperto – a partire da luglio, ma soprattutto da settembre, ogni mese abbiamo assistito a movimenti importanti dei tassi sui nuovi mutui effettuati da diverse banche”.

Incrementi dovuti, secondo Rossini, ad un “ritardo di revisione dei tassi finiti di offerta sui mutui a tasso fisso a fronte degli aumenti degli indici Irs”, i tassi che insieme allo spread compongono il tasso fisso. Ma tra i fattori che hanno determinato l’accelerazione dei tassi c’è soprattutto il tendenziale “aumento del costo dell’approvvigionamento di liquidità”. Le banche, come detto sopra, starebbero aumentando il costo dei prestiti a imprese e famiglie per compensare un maggior costo della raccolta del denaro all’ingrosso dovuto alle recenti tensioni sui mercati.

Si possono unire due mutui?

Esistono diverse procedure che consentono di unire due mutui in un solo finanziamento. Alcune sono concesse direttamente dalla banca, un’altra è disciplinata dalla legge che, in casi estremi, permette al debitore di concludere un accordo con tutti i suoi creditori prima di giungere al pignoramento dei propri beni. In entrambi i casi si utilizza il termine rinegoziazione per indicare la possibilità di ottenere condizioni favorevoli per l’estinzione dei debiti. Ma qualora la procedura fosse attuata dalla banca si parlerà di consolidamento dei debiti.

Il consolidamento dei debiti viene richiesto ad un unico istituto finanziario che si occuperà di ridefinire le condizioni contrattuali dei due mutui. Se il secondo mutuo è stato stipulato presso un’altra banca, quest’ultima cederà il suo credito all’istituto che concederà il consolidamento il quale diventerà unico soggetto creditore del mutuante. La conseguenza immediata sarà la presenza di un’unica ipoteca di primo grado sull’immobile oggetto del mutuo ed il debitore avrà la possibilità di ridefinire il piano di rientro dei suoi debiti a condizioni favorevoli. Con il consolidamento dei debiti i due mutui si estingueranno e l’unione degli stessi darà vita ad un solo finanziamento. Qualora uno dei due mutui è stato acceso per l’acquisto (o la ristrutturazione) della prima casa, con l’accopramento dei debiti esso si considera estinto.

Il piano di rientro prevederà una sola rata di importo minore rispetto alla somma delle rate mensili dei due mutui ed il piano di ammortamento sarà prolungato di qualche anno. Potrebbero essere applicati tassi di interesse leggermente superiori, ma sicuramente meno onerosi per l’estinzione del debito.

Quella disciplinata dalla legge assume il nome di procedura di composizione della crisi e ha ad oggetto una proposta di accordo fra debitore, creditore e specifici organismi deputati alla stesura dell’atto. La normativa individua i casi in cui si possono unire due o più mutui e le regole da seguire per stipulare l’accordo. La procedura di composizione della crisi si attua quando il debitore si trova in uno stato di sovraindebitamento, considerando che si è in sovraindebitamento quando una persona non riesce economicamente ad adempiere alle proprie obbligazioni. Il sovraindebitamento viene calcolato attraverso una semplice operazione aritmetica: quando il patrimonio del debitore ha un valore molto inferiore rispetto all’ammontare dei debiti costui è sovraindebitato.

La procedura di composizione della crisi viene concessa a precise condizioni:

  • il debitore non deve essere sottoposto a procedure concorsuali e non deve aver fatto ricorso, nei tre anni precedenti alla richiesta, ad altre procedure di composizione della crisi;
  • il debitore deve fornire garanzie sufficienti per estinguere il nuovo mutuo. In assenza di avalli sarà possibile ottenere garanzie da terzi soggetti che sottoscriveranno la proposta di accordo conferendo beni, redditi o fideiussioni.

Il suddetto accordo viene realizzato da appositi organismi che avranno il compito di seguire tutta la procedura relativa all’unione dei vari mutui. L’accordo dovrà essere depositato presso il tribunale dove ha la residenza il debitore e reso noto ai vari creditori mediante un decreto emanato da un giudice. Ciascun creditore sarà libero di accettare o meno la proposta di accordo ma, nel frattempo, sarà sospesa ogni forma di esecuzione forzata per un periodo massimo di 120 giorni.

Etichette per alimenti: cosa impone la legge?

Il crescente interesse del consumatore finale nella fase d’acquisto dei prodotti alimentari salutistici ha reso molto importante regolamentare l’informazione sugli alimenti che viene trasferita mediante etichettatura. L’etichetta, pertanto, assume un ruolo strategico in quanto informa il consumatore sulle caratteristiche del prodotto consentendogli di scegliere quello che maggiormente risponde alle proprie esigenze: essa rappresenta, quindi, una sorta di carta d’identità del bene prodotto.

Deve di conseguenza ritenersi di estrema importanza il D.lgs. 15 dicembre 2017 n. 231, che riguarda la disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del regolamento (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori e l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del medesimo regolamento (UE) n. 1169/2011 e della direttiva 2011/91/UE, ai sensi dell’articolo 5 della legge 12 agosto 2016, n. 170 «Legge di delegazione europea 2015».

Con il termine “etichettatura” si fa riferimento a tutte quelle informazioni che riguardano il contenuto di un determinato alimento confezionato, come ad esempio, l’elenco degli ingredienti, la denominazione o la data di scadenza. L’etichetta (ma anche il contrassegno (marcatura CE)) consapevolizza il consumatore sui requisiti delle merci in generale esercitando un’azione esplicativa a vantaggio della tutela qualitativa, ma anche igienico-sanitaria. L’asimmetria informativa tra consumatori e produttori è quindi ridimensionata mediante una riorganizzazione della normativa riguardante le informazioni offerte al pubblico.

La prima disciplina dell’etichettatura degli alimenti può essere ricollegata al D. lgs n. 109/1992 (G.U.R.I. GU Serie Generale n.39 del 17-2-1992 – Suppl. Ordinario n. 31), la quale è stata integrata, negli anni, con varie direttive e regolamenti a livello europeo. Dopo svariati anni di confronti si è giunti alla definizione della nuova normativa. Difatti, dal 13 dicembre 2016 è diventato completamente applicabile, dopo l’operatività dell’art. 9, par. 1, lett. l) (obbligo di dichiarazione nutrizionale), il Regolamento (UE) n. 1169/2011 (G.U.U.E. GU L 304 del 22.11.2011) relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori che ha modificato il Regolamento (CE) n. 1924/2006, il quale fornisce disposizioni in merito alle indicazioni nutrizionali e sulla salute indicate sui prodotti alimentari, e il Regolamento (CE) n. 1925/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, che disciplina l’aggiunta di vitamine e minerali e di talune altre sostanze agli alimenti.

I fattori più importanti che hanno spinto a regolamentare nuovamente la materia possono riassumersi in 3 punti:

– la volontà unanime di realizzare una normativa comune a livello europeo, da applicare in tutti gli Stati Membri;

– la richiesta dei produttori di semplificare e armonizzazione la struttura normativa;

– la tutela della salute dei consumatori.

Tale regolamento, ritenuto di estrema importanza per i consumatori, ma soprattutto per tutte le aziende europee del settore agroalimentare, ha inteso armonizzare le varie normative nazionali, rendendo obsolete le prescrizioni della precedente Direttiva 2000/13/CE che, a causa della continua evoluzione dei mercati, richiedeva costanti aggiornamenti.

La normativa che disciplina il tema dell’etichettatura impone, in primis, che non siano riportate informazioni fuorvianti o, comunque, che inducano il consumatore all’errore. Si richiede, inoltre, il rispetto dei principi della correttezza, della trasparenza e della leggibilità per preservare gli interessi degli acquirenti, ma anche degli operatori commerciali. È, quindi, necessario rendere edotti i consumatori circa la presenza delle sostanze che possono provocare delle intolleranze, delle allergie o altre ripercussioni negative sulla salute.

Il Capo IV del regolamento è dedicato interamente alle informazioni obbligatorie che, tranne deroghe ed eccezioni, devono essere apposte sulla confezione degli alimenti; esse sono:

– la denominazione dell’alimento;

– l’elenco degli ingredienti;

– qualsiasi ingrediente o coadiuvante tecnologico elencato nell’allegato II o derivato da una sostanza o un prodotto elencato in detto allegato che provochi allergie o intolleranze usato nella fabbricazione o nella preparazione di un alimento e ancora presente nel prodotto finito, anche se in forma alterata;

– la quantità di taluni ingredienti o categorie di ingredienti;

– la quantità netta dell’alimento;

– il termine minimo di conservazione o la data di scadenza;

– le condizioni particolari di conservazione e/o le condizioni d’impiego;

– il nome o la ragione sociale e l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare;

– il paese d’origine o il luogo di provenienza;

– le istruzioni per l’uso, per i casi in cui la loro omissione renderebbe difficile un uso adeguato dell’alimento;

– per le bevande che contengono più di 1,2 % di alcol in volume, il titolo alcolometrico volumico effettivo;

– una dichiarazione nutrizionale.

Nell’elaborare il contenuto informativo delle etichette, gli operatori del settore alimentare devono ispirarsi ad alcuni principi generali, ovvero:

– chiarezza: le indicazioni devono risultare facilmente comprensibili per un consumatore medio e non devono ingenerare dubbi sulle caratteristiche del prodotto acquistato; sono, pertanto, da evitare codici o altri elementi che non siano di immediata interpretazione e comprensione (es. il numero di iscrizione al REA del Registro Imprese della CCIAA in sostituzione della sede dello stabilimento di produzione);

– leggibilità: le informazioni devono essere riportate in caratteri di dimensioni tali da poter essere letti senza troppa difficoltà; a tale scopo, per alcune tipologie di informazioni (ad esempio la quantità nominale) il legislatore ha definito la dimensione minima dei caratteri al di sotto dei quali non è possibile scendere;

– facilità di lettura: le indicazioni di seguito elencate devono figurare nello stesso campo visivo, in modo da essere facilmente leggibili in una sola occhiata; gli operatori, inoltre, non devono riportare informazioni in punti nascosti, di difficile lettura o rimovibili (es. sigillo di confezionamento);

– indelebilità: gli operatori devono garantire l’indelebilità delle informazioni riportate in etichetta, affinché esse siano leggibili per tutta la vita commerciale del prodotto.

Le indicazioni riportate sull’etichetta dei prodotti alimentari destinati alla commercializzazione sul mercato nazionale devono essere riportate in lingua italiana. È consentito l’utilizzo di altre lingue solo se:

  • il termine è diventato di uso talmente corrente e generalizzato da non richiedere traduzioni (es.: Croissant utilizzato come denominazione di un prodotto da forno);
  • le menzioni originali non hanno corrispondenti nei termini italiani (es. Brandy).

Possono essere presenti anche altre lingue ufficiali della Unione Europea, ma in aggiunta e non in sostituzione alla lingua italiana.

Ai fini dell’etichettatura è necessario preliminarmente distinguere in merito alla presentazione e alla vendita al pubblico di prodotti alimentari:

  • prodotti preconfezionati (o preimballati): sono quei prodotti alimentari confezionati nello stabilimento di confezionamento e, in assenza dell’acquirente, avvolti, totalmente o in parte, in un imballaggio che deve essere mantenuto integro fino al momento del consumo;
  • prodotti preincartati (o preconfezionati per la vendita immediata): sono quei prodotti alimentari confezionati sul punto vendita al momento della richiesta del cliente o antecedentemente, ma ai fini della vendita immediata nello stesso locale dove sono stati confezionati (pane, carne fresca, formaggi e salumi al taglio, ecc.);
  • prodotti sfusi: sono quei prodotti alimentari sui quali non è possibile apporre l’etichetta in quanto privi della confezione (frutta, ortaggi freschi, ecc.).

Una delle novità principali che ha aumentato la trasparenza nei confronti dei potenziali acquirenti è l’obbligo, se pur con varie eccezioni, dell’apposizione in etichetta della dichiarazione nutrizionale per i prodotti confezionati.

Tale imposizione vale solo per i prodotti alimentari “preimballati”, destinati alla vendita al consumatore finale ma anche a bar, esercizi pubblici, di ristorazione e catering, salva la possibilità per l’operatore di inoltrare a questi ultimi un documento che attesti il valore nutrizionale in alternativa all’etichettatura individuale dei pezzi.

Come stabilito dall’Unione Europea, la dichiarazione nutrizionale di un alimento fa riferimento alle informazioni sulla presenza di calorie e di alcune sostanze nutritive negli alimenti. La presentazione obbligatoria sull’imballaggio di informazioni sulle proprietà nutritive dovrebbe supportare azioni dietetiche in quanto parte delle politiche sanitarie pubbliche, che possono anche prevedere l’indicazione di raccomandazioni scientifiche nell’ambito dell’educazione nutrizionale per il pubblico e garantire scelte alimentari informate.

L’etichetta dovrà indicare:

  1. a) il valore energetico degli alimenti;
  2. b) la quantità di grassi, gli acidi grassi saturi, i carboidrati, gli zuccheri, le proteine e il sale espressi come quantità per 100g o per 100 ml o per porzione.

Oltre alle informazioni obbligatorie è possibile, in maniera non obbligatoria ma volontaria, aggiungere ulteriori informazioni anch’esse disciplinate dal Regolamento, come ad esempio gli elementi nutritivi di un elenco determinato. 

La norma che abroga il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n.  109, dopo aver inquadrato il campo d’applicazione, identifica subito la figura del cd. “soggetto responsabile”, ossia: l’operatore   del   settore alimentare di cui all’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento, con il cui nome o con la cui ragione sociale è commercializzato il prodotto o, se tale operatore non è stabilito   nell’Unione, l’importatore avente sede nel territorio dell’Unione; è, inoltre, considerato come “soggetto responsabile” l’OSA, il cui nome o la cui ragione sociale siano riportati in un marchio depositato o registrato.

Successivamente il testo normativo, da un lato, tratta la disciplina sanzionatoria per le violazioni del Regolamento n. 1169/2011 (articoli da 3 a 16), dall’altro, invece, (articoli da 17 a 24), introduce norme di adeguamento al Regolamento (UE) n. 1169/2011 (con relative sanzioni) inerenti l’indicazione del numero di lotto e l’etichettatura dei prodotti contenuti in distributori automatici e di quelli non preimballati.

Il nuovo decreto, quindi, stabilisce le sanzioni per la violazione delle disposizioni del Regolamento 1169/2011 riguardanti:

  • le pratiche leali di informazione (art. 3);
  • gli obblighi informativi da parte degli operatori del settore alimentare (OSA) (art. 4);
  • l’apposizione delle informazioni obbligatorie sugli alimenti preimballati (art. 5);
  • le modalità di espressione, posizionamento e presentazione delle indicazioni obbligatorie (art. 6);
  • la vendita a distanza (art. 7).

La norma poi si focalizza sulle violazioni delle disposizioni specifiche sulle indicazioni obbligatorie in etichetta ed in particolare fissa sanzioni per quanto riguarda:

  • la denominazione dell’alimento (art. 8);
  • l’elenco degli ingredienti (art. 9);
  • i requisiti nell’indicazione degli allergeni (art. 10);
  • l’indicazione quantitativa degli ingredienti e l’indicazione della quantità netta (art. 11);
  • il termine minimo di conservazione, la data di scadenza e la data di congelamento (art. 12);
  • il paese di origine o luogo di provenienza (art. 13);
  • il titolo alcolometrico (art. 14);
  • le dichiarazioni nutrizionali (art. 15).

Vengono, in seguito, stabilite le sanzioni per le violazioni in materia di informazioni volontarie sugli alimenti (art. 16). Il decreto, infine, apporta un adeguamento al Regolamento (UE) n. 1169/2011 stabilendo ulteriori obblighi e relative sanzioni in caso di mancato rispetto della normativa sui seguenti aspetti dell’etichettatura e della vendita di alimenti:

  • diciture o marche che consentono di identificare la partita a cui appartiene una derrata alimentare (art. 17);
  • vendita di alimenti non preimballati tramite distributori automatici o locali automatizzati (art. 18);
  • vendita di alimenti non preimballati (art. 19);
  • menzioni che devono essere riportate sui prodotti non destinati al consumatore (art. 20).

Le disposizioni sanzionatorie colpiscono due differenti tipologie di violazioni:

– mancata indicazione delle informazioni obbligatorie;

– indicazione delle informazioni (sia obbligatorie che facoltative) con modalità difformi rispetto a quelle prescritte dal Regolamento 1169/2011.

Gli importi, variabili ovviamente tenuto conto della gravità delle singole infrazioni, vanno da un minimo di 500 euro fino ad un massimo di 40 mila euro.

Di notevole rilievo è, infine, la disciplina sanzionatoria per la violazione delle pratiche leali di informazione, la quale comporta per l’OSA, salvo che il fatto costituisca reato, l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da 3.000 euro a 24.000 euro (es. erronea indicazione del produttore/confezionatore contoterzista, anziché il soggetto con il cui nome o marchio il prodotto viene commercializzato). 

Autorità competente, riduzioni ed eccezioni

L’autorità competente all’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal D.lgs. 231/2007 è il Dipartimento dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressioni frodi dei prodotti agroalimentari del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Per l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni si applica la procedura prevista dalla Legge 689/1981, così come la procedura prevista dal D.L. 91/2014. Innanzitutto con tale procedura si riconosce una riduzione del 30% della sanzione in caso di pagamento entro 5 giorni. Altresì, in caso di primo accertamento di una sanzione “sanabile”, si farà ricorso all’istituto della diffida, quindi l’operatore potrà regolarizzare la non conformità entro il termine di 20 giorni dalla ricezione dell’atto di diffida.

Il D. lgs. 231/2017 prevede poi altri casi di riduzione o esclusione delle sanzioni. Infatti, nel caso in cui la violazione sia commessa da imprese aventi i parametri della microimpresa, la sanzione amministrativa è ridotta sino a un terzo. Non si applicano le sanzioni previste:

  • alle forniture di alimenti che presentino irregolarità di etichettatura – ma non riguardanti la data di scadenza o sostanze o prodotti che possono provocare allergie o intolleranze – se destinate ad organizzazioni senza scopo di lucro, per la successiva cessione gratuita a persone indigenti,
  • nel caso di immissione sul mercato di un alimento che sia corredato da adeguata rettifica scritta delle informazioni non conformi.
Etichetta d’origine: dal 2019 potrebbe decadere l’obbligo.

Un nuovo regolamento Ue, che sarebbe applicato da aprile 2019, potrebbe cancellare l’obbligo per le aziende produttrici di alcuni alimenti di indicare l’origine geografica della materia prima.

Sono recenti le leggi che hanno introdotto l’obbligo di indicare in etichetta l’origine di pasta, riso, latte, formaggi e pomodoro, ma il loro destino è di essere invalidate a breve in quanto norme nazionali e quindi più deboli rispetto a quelle comunitarie. Un regolamento europeo, peraltro atteso almeno da quattro anni, le renderà del tutto inutili. La Commissione ha sottoposto il testo a una consultazione pubblica che si chiuderà il prossimo primo febbraio e il regolamento, che potrebbe entrare in vigore poche settimane più tardi, si applicherà dall’aprile 2019. Questo era già previsto da tutti i decreti introdotti nel 2017 dall’Italia: non appena Bruxelles approverà il testo comunitario, decadranno.

Tutto verte intorno all’origine dell’ingrediente primario: sarà obbligatorio indicarne l’origine se diversa da quella del prodotto finito.

La bozza elaborata a Bruxelles a prima vista non sembra discostarsi di molto dai decreti voluti dal ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, ma non è così. L’obbligo, infatti, non varrà per le indicazioni geografiche protette Dop e Igp ma soprattutto non si applicherà ai marchi registrati che, a parole o con segnali grafici, indicano già di per sé la provenienza del prodotto. Restano però le tutele previste dal regolamento 1169. Tutti i marchi che evocano italianità nel nome o nella grafica, ma che italiani non sono, dovranno comunque recare la precisazione che il prodotto non è made in Italy. Con una precisazione: l’origine del prodotto indica il Paese in cui l’alimento ha subito l’ultima trasformazione sostanziale. Nulla a che vedere con l’ingrediente primario.

Entro maggio 2019, in vigore nuovi limiti per l’acquisto degli alimenti privi di glutine.

Per le persone celiache, circa 200 mila nel nostro Paese, gli alimenti senza glutine non sono un capriccio o una moda ma l’unica cura possibile, quindi una terapia salvavita. Per questo hanno diritto ad accedervi gratuitamente, attraverso i buoni forniti dal Servizio sanitario nazionale, nei limiti dei tetti mensili fissati dal Ministero della Salute con il Decreto del 4 maggio 2006. Limiti, cioè importi, che presto dovrebbero cambiare in seguito all’entrata in vigore del nuovo Decreto sui «Limiti massimi di spesa per l’erogazione dei prodotti senza glutine», pubblicato in Gazzetta ufficiale a fine agosto (n. 199). Il condizionale è d’obbligo perché sulla vicenda è nato un «pasticcio» normativo sul quale le associazioni dei malati chiedono chiarimenti.

Il Decreto stabilisce che entro sei mesi, quindi entro fine febbraio 2019, dovrà essere aggiornato il registro nazionale degli alimenti, poi le Regioni avranno tre mesi di tempo per adeguarsi. Tuttavia, è stata diramata una circolare del Ministero della Salute in cui si stabilisce che: «A far data dal 12 settembre codeste Regioni per il tramite delle Aziende sanitarie locali, territorialmente competenti, sono tenute ad applicare i nuovi limiti mensili… Quanto alle norme transitorie, si rappresenta altresì che fino alla pubblicazione del registro nazionale degli alimenti senza glutine aggiornato occorre fare riferimento agli alimenti inclusi nel registro attualmente disponibile». Dura la presa di posizione dell’Associazione italiana celiachia.

Dice il presidente AIC , Giuseppe Di Fabio: «Gli annunci del ministro Grillo, lanciati su twitter nelle scorse settimane, di voler fare chiarezza sui nuovi tetti di spesa approvati con Decreto ministeriale il 10 agosto e di voler valutare quindi eventuali modifiche per non penalizzare i pazienti celiaci, sono rimasti lettera morta. Non solo — prosegue Di Fabio — il Ministero ha diffuso del tutto inaspettatamente una circolare confusa, immotivata e inutile che, ignorando le disposizioni di legge, ha anticipato i tempi di applicazione dei tetti di spesa ridotti senza rivedere preventivamente il Registro Nazionale, che elenca gli alimenti senza glutine erogabili a spese del Servizio Sanitario Nazionale. Il risultato? È caos nelle Regioni dove regna il “fai da te” con pazienti che ricevono trattamenti differenti. i pazienti, senza essere stati informati del repentino anticipo del taglio, scoprono di non avere più diritto alla stessa esenzione del mese precedente, mentre altri ricevono i buoni invariati per l’intero anno successivo e in alcuni casi sono gli esercenti, su indicazione delle loro ASL, a correggere i buoni dei pazienti. Ma stanno pagando anche gli operatori, quindi farmacisti, grande distribuzione e negozi, ignari della repentina, inattesa e retroattiva corsa all’applicazione dei tetti ridotti. Siamo profondamente delusi e indignati e ancora attendiamo la risposta del Ministero sulle ragioni di questa corsa a fare cassa, anticipando le scadenze previste dal decreto scritto, firmato e pubblicato in Gazzetta Ufficiale». Il Ministero della Salute, da parte sua, fa sapere che «sono in arrivo chiarimenti».

Innanzitutto si riduce la cifra che gli adulti, in particolare gli ultrasessantenni, potranno spendere ogni mese per l’acquisto di pane, pasta e altri cibi senza glutine, in base al sesso e alle fasce di età (dalle attuali 4 si passa a 6); aumenta, invece, l’importo mensile nel primo anno di vita.

Il contributo può cambiare a seconda della residenza perché ogni Regione può decidere se aumentarlo o meno.

Il provvedimento di fine agosto apporta modifiche anche alla varietà dei prodotti senza glutine cui ha diritto chi soffre di celiachia, compresa la variante della dermatite erpetiforme. Si specifica, infatti, che il buono mensile a carico del Ssn può essere utilizzato per l’acquisto di «alimenti senza glutine specificamente formulati per celiaci», inclusi nel registro nazionale, che rientrano nelle seguenti categorie: pane e affini, prodotti da forno salati; pasta e affini; pizza e affini; piatti pronti a base di pasta; preparati e basi pronte per dolci, pane, pasta, pizza e affini; prodotti da forno e altri prodotti dolciari; cereali per la prima colazione. Restano gratuiti tutti quegli alimenti che rispondono alle esigenze degli stili di vita contemporanei prevalenti, come i primi piatti pronti o semipronti».